Attraverso l’obiettivo
Per essere precisi, “il progetto era stato pensato inizialmente dalla Biblioteca Cittadini del Mondo come una delle iniziative di Q44 in occasione dell’anniversario del rastrellamento nazifascista del 17 aprile del 1944.” I fotografi Carolina Farina, Ugo Leonetti, Andrea Martella e Umberto Tati sono gli autori della collettiva “Storie di quariere” e, attraverso le immagini in mostra, raccontano, appunto, diverse storie di quartiere. Qual’è la tua?
“I miei scatti per questa mostra raccontano momenti che riguardano sia la prima che la seconda fase della pandemia durante le quali la fotografia è stata per me fondamentale nell’ affrontare questo momento imprevisto di fragilità collettiva. Durante il secondo mese di lockdown ci è stato proposto come collettivo Marciapiedi di accompagnare i volontari e le volontarie di Cinecittà Bene Comune per documentarne le attività solidali nei quartieri Quadraro, Cinecittà e Don Bosco: l’ho colta al volo perché mi sembrava l’unico modo per poter stare come artista in questa terribile situazione. È stata un’esperienza importante per elaborare quello che stava accadendo attraverso una ripresa delle relazioni in presenza, con tutte le dovute misure di sicurezza, guardando negli occhi tante e tanti sconosciuti che man mano diventavano più familiari e complici e dei quali riuscivo a percepire con più attenzione le emozioni. Nel fotografare ho ricercato la delicatezza per non rischiare di invadere lo spazio denso di paure e diffidenza delle persone incrociate sul mio percorso. Nel percorso di questi mesi e poi nella selezione finale delle mie immagini la preferenza è andata principalmente incontro a quelle inquadrature che fissavano situazioni buffe, ironiche, momenti di gioia e condivisione che sfuggissero alla narrazione mainstream di un mondo sospeso che vincola la propria felicità alla fine della pandemia.”
“A essere sincero ho scattato pochissime foto durante il vero e proprio lockdown. Nel clima che si respirava, mi sentivo quasi in colpa ed in ansia a portare con me la macchina fotografica. Quando si dovevano fare le poche ed essenziali uscite mi limitavo solamente a fare spese settimanali e mirate, bardato come se fossi uno sciacallo in una zona d’esclusione. Mi sono limitato a fare qualche scatto casalingo di “reportage” di vita quotidiana – progetto che è tragicamente naufragato dopo poco a causa del vuoto esistenziale che mi provocava la situazione tutta. Per quanto riguarda le mie foto esposte, invece, mi sono focalizzato soprattutto nel periodo subito dopo il lockdown: dopo un periodo di clausura forzata, mi è venuta naturale fare la cosa che avrebbe fatto qualsiasi fotografo quando si sono allentate le misure restrittive: imbracciare la macchina fotografica ed uscire a scattare. Gli scatti che sono usciti fuori hanno per me colto benissimo la l’aria che si respirava in quel momento: la paura era ancora tanta, però si cominciava a vedere uno spiraglio di luce, si ricominciava timidamente a tornare alla normalità ed addirittura si poteva cominciare quasi a fare ironia su tutta la vicenda (come testimonia il cavallo con la mascherina).”
“Fotografare durante il lockdown è stata un’esperienza particolare. Credo che tutti fossimo convinti che da lì a qualche mese sarebbe tornato tutto alla normalità, ora sappiamo che non è così. Ormai lavorare con mascherina, e in alcuni casi guanti, è lo standard. Documentare e fotografare l’impegno dei volontari nella consegna dei pacchi alimentari è stato, secondo me, l’inizio di un nuovo modo di affrontare il lavoro, sia del volontario, che del fotografo.
Mascherina, guanti e distanze di sicurezza.”
“Quello che con il lockdwn è accaduto nelle città, è stato un qualcosa di inimmaginabile. Da questa situazione eccezionale è nato l’impulso di provare a documentare quei momenti storici di stravolgimento sociale.
Sul tema sono stati prodotti moltissimi reportage tesi a documentare, nella maggior parte dei casi, la sofferenza derivata dalla malattia. Ma la malattia non è stato l’unico dei problemi che ha colpito parte della popolazione. A questa si sono aggiunte le conseguenze derivate dalla chiusura delle città e della maggior parte delle attività produttive, e quindi, l’incertezza del lavoro o della sua totale assenza e l’ aumento della povertà per quelle famiglie che precariamente, fino a quel momento, erano riuscite perlomeno a coprire i bisogni primari.
Il mio lavoro è quindi nato dalla volontà di descrivere attraverso le immagini, sia la solidarietà spontanea messa in atto da quelle Associazioni che, da sempre radicate sul territorio, hanno da subito intercettato i bisogni degli ultimi, confortandoli e rifornendoli dei beni di prima necessità, attraverso le donazioni spontanee dei cittadini partecipi, sia i momenti di vita di una cittadinanza resiliente che in modo composto ha saputo reagire scoprendosi solidale.”
Comments
Semplicemente. BRAVISSIMI.
Grazie.
Grande Giulia, bell’articolo!