Murat Yazar
è un fotografo che racconta storie di individui e di luoghi. Fotografa principalmente in bianco e nero. Lo scatto iniziale prevale rispetto la post–produzione. Quando ritrae delle persone lo fa senza chiedere il permesso, non ci sono costruzioni di alcuna posa e se il soggetto non vuole essere ripreso cancella poi l’immagine senza insistenze di sorta. Al di là del modus operndi, l’inquadratura è semplicemente perfetta, sembra quasi non lasci nulla al suo esterno e le serie colgono il particolare come l’insieme, il ritmo e la pausa, il soffice del movimento e il pungente della messa a fuoco. I suoi scatti si muovono come i suoi occhi e oltrepassano le definizioni e le etichette di ritratti o paesaggi, di fotogiornalismo e di foto artistiche. Non saprei come definirle in modo esaustivo, posso solo dire che sono le foto di Murat Yazar.
La discrezione del margine
Murat Yazar è curdo, è nato nel 1978 a Urfa, vicino Göbekli Tepe, uno dei siti archeologici più celebri del mondo. A Roma incontro Murat due volte, prima al Pigneto e poi a San Lorenzo, alla fine di due giornate di luglio luminosissime. Ha gli occhi sorridenti e uno sguardo cortese, riservato. Le sue foto sono state pubblicate sul New York Times e ha camminato per un po’ con Paul Salopek (giornalista americano e premio Pulitzer) per il progetto, Out of Eden, (un viaggio a piedi, cominciato in Etiopia, che attraversa i continenti e che verrà pubblicato sul National Geographic). Il fotografo che incontro è un uomo che è nato e cresciuto in un contesto, dal mio punto di vista, straordinario, perché non sono parte di una minoranza e non ho visto con i miei occhi invasioni militari. “Shadows of Kurdistan”, è forse uno dei lavori più conosciuti e premiati di Murat Yazar. La serie di immagini ripercorre il suo paese, al margine tra la luce e l’oscurità. Per alcuni essere parte di una minoranza è un dato di fatto, qualcosa di ordinario, che si comprende inequivocabilmente, quando a otto anni sei in un collegio e devi parlare una lingua che non è la tua, il turco, in questo caso. Con uno sguardo pacifico mi racconta anche dei suoi studi a Istambul, una città piena di occasioni per un fotografo, perché gremita di gallerie d’arte, musei, e artisti con cui confrontarsi e fare progetti.
La luce e le connessioni culturali
Attraverso il suo racconto intuisco come insegua la luce che si riflette, a sua volta, su tutto ciò che gli è intorno: la città e i suoi abitanti, le montagne, le case, le feste, le celebrazioni religiose e così via. È molto attento alle radici dei soggetti che ritrae, le matrici culturali, religiose e politiche sono connessioni fondamentali. I suoi occhi guardano l’esterno e così non fanno tutti gli autori. Ultimamente sono di moda lavori più introspettivi, psicologici quasi. Murat Yazar, invece, si guarda intorno e cammina. In effetti sembra amare molto camminare, spostarsi, viaggiare e conoscere.
una delle sue serie fotografiche che più apprezzo, mostra l’Iran nel 2019, con un’attenzione particolare al ruolo delle donne nella società. Non è l’ordinario reportage di denuncia, per intenderci non mira alla seconda lacrima di Kundera, ma coglie i dettagli di una forza femminile che si declina come può in una società che apparentemente accetta la rigida legge della Sharia. Forse è proprio questo il punto, egli ritrae l’ordinario nello straordinario e viceversa, al punto che non ha più quasi senso domandarsi cosa corrisponda a cosa, ma semplicemente osservare e lasciarsi trasportare in un viaggio oltre le definizioni e gli stereotipi.